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sabato 29 giugno 2013

Orgoglio a parte, ma non tanto..

Visto che nel post precedente abbiamo parlato di uno dei 7 peccati capitali, l'Avarizia, esaminiamone un altro, la Superbia, ricorrendo, come sempre, all'aiuto dei classici.
Spolveriamo quindi questo piccolo brano di Plutarco, che ci fornisce qualche dettaglio in proposito attraverso le parole di due grandi generali, Annibale e Scipione l'Africano:








Scipione l'Africano, avendo sconfitto Annibale in Libia, non lo scacciò, ma avendo colloquiato con lui prima della battaglia gli tese la mano, e dopo la battaglia, stabilendo le condizioni, non schernì la cattiva sorte dell'uomo.
Si dice che essi si incontrarono di nuovo ad Efeso e passeggiando insieme, si misero a parlare di generali.
Annibale disse che il migliore dei generali si era dimostrato Alessandro, poi Pirro e terzo lui stesso.
Scipione, sorridendo dolcemente, disse: " Che (diresti) allora se io non ti avessi vinto?". E Annibale rispose: "In tal caso, o Scipione, non mi considererei il terzo ma il primo dei generali".


Scipione, effettivamente, è sempre stato dipinto come l'incarnazione delle virtù che fecero grande Roma, perfetto come condottiero e perfetto come cittadino. Ciò non toglie, comunque, che non fosse molto amato dai suoi concittadini: a chi è troppo onesto e troppo sicuro di sè spesso capita di essere solo.
Sappiamo bene, inoltre, noi che abbiamo tante traduzioni dietro le spalle, che non dobbiamo prendere per oro colato tutta la storiografia, volta spesso a celebrare le virtù e la pietas dei vincitori e a censurare le perversioni e la crudeltà dei vinti.
Fatto sta che comunque i due si rispettavano tanto da potersi permettere una conversazione come questa, senza inutili fronzoli. In fin dei conti, Annibale viene considerato dagli esperti come "il padre della strategia militare" e Scipione, dal canto suo, non sbagliò una mossa: normale che si ammirassero a vicenda.
Ma torniamo al tema odierno, ossia la "Superbia": difficile liberarcene perchè ci è necessaria almeno quanto la modestia. Bisognerebbe riuscire a miscelare sapientemente l'orgoglio e la consapevolezza di sè con la giusta dose di umiltà, evitando che i primi due crescano a dismisura. Se ci riusciamo, teniamoci solo quella parte di orgoglio (e chiamiamola anche superbia, boria, presunzione, snobismo o come volete) che ci spinge a rifiutare di fare quelle cose che ci vengono dettate dal nostro senso pratico (o da altri istinti poco nobili)  ma che sappiamo non essere giuste.

domenica 23 giugno 2013

Il tesoro

A proposito del post precedente, mi è tornata in mente la scena in cui il protagonista, Giacinto, non trovando più il pacchetto contenente il milione di lire, accusa i suoi parenti di averglielo rubato (in realtà è lui che non ricorda dove l'ha nascosto) e essendo appunto uomo di poche parole, passa subito ai fatti, dando sfogo alla sua ira...beh, mi è venuto quasi automaticamente in mente il monologo di Arpagone, il personaggio creato dal genio di Molière (L'avaro, 1668), in una situazione pressochè analoga (anche se in questo caso il furto è avvenuto veramente). Arpagone, al contrario di Giacinto, è un fiume di parole e sono "parole di vero amore":
 ........
Rends-moi mon argent, coquin... (Il se prend lui-même le bras.) Ah, c'est moi. Mon esprit est troublé, et j'ignore où je suis, qui je suis, et ce que je fais. Hélas, mon pauvre argent, mon pauvre argent, mon cher ami, on m'a privé de toi; et puisque tu m'es enlevé, j'ai perdu mon support, ma consolation, ma joie, tout est fini pour moi, et je n'ai plus que faire au monde. Sans toi, il m'est impossible de vivre. C'en est fait, je n'en puis plus, je me meurs, je suis mort, je suis enterré. N'y a-t-il personne qui veuille me ressusciter, en me rendant mon cher argent, ou en m'apprenant qui l'a pris?
......
Rendimi il mio denaro, furfante... (si afferra il suo braccio) Ah, sono io. Il mio spirito è turbato, e ignoro dove sono, chi sono e quello che faccio.Ahimé, il mio povero denaro, il mio povero denaro, il mio caro amico, mi hanno privato di te; e poichè tu mi sei stato sottratto, io ho perduto il mio sostegno, la mia consolazione, la mia gioia, tutto è finito per me e io non ho più scopo al mondo. Senza di te, mi è impossibile vivere. E' finita, non ne posso più, io muoio, io sono morto, io sono sotterrato. Non c'è nessuno che voglia resuscitarmi, rendendomi il mio caro denaro o dicendomi chi l'ha preso?

Che dire? Una dichiarazione d'amore del genere precede di secoli quelle di zio Paperone, anche se il celebre papero della famiglia Disney fu ispirato, letteratura alla mano, dal personaggio Ebenezer Scrooge di Dickens (Canto di Natale, 1843). E se l'inaccessibile deposito riusciva a far dormire sonni tranquilli allo zione, ognuno ha bisogno di sapere che il proprio "tesoro" è al sicuro (anche Giacinto!!!) e quindi chi non ha molti mezzi oppure non può rivolgersi alle banche lo nasconde, proprio come i Pirati...E visto che siamo in vena di citazioni, chi non ha letto "L'isola del tesoro" di Robert Louis Stevenson? Beh, per quelli della mia età questa lettura era quasi una legge della fisica, oggi non lo so; sicuramente di questi tempi, se si parla di tesoro, è più probabile che venga fatta l'associazione immediata con il tormentone di Smeagle ("Il mio tessoro..."), la maliziosa creatura  della trilogia cinematografica de "Il Signore degli Anelli", ispirata dal romanzo di Tolkien.
Sembrerebbe quindi che il nostro rapporto con il denaro (e con i tesori di ogni tipo) sia sempre stato alquanto complicato e un po' irrazionale, ma forse, in fin dei conti, va bene così: tutti abbiamo bisogno di qualche ossessione e di quel pizzico di follia che ci rendono umani.
Alla prossima.

domenica 9 giugno 2013

Noi che tiriamo a campare

Facciamo un giro, adesso, in mezzo a coloro che di parole non ne conoscono molte e facciamolo, come al solito, attraverso la forza delle immagini cinematografiche.
Il film scelto per l'occasione è “Brutti, sporchi e cattivi”(1976) , del maestro Ettore Scola.
In una baraccopoli della periferia romana si assiste , giorno dopo giorno, al degrado morale e materiale degli abitanti, indaffarati a tirare avanti in attesa di una tragedia che prima o poi arriverà.
Giacinto, il protagonista (interpretato da un grande Nino Manfredi), è un immigrato pugliese, con una fedina penale lunga un chilometro, che vive nella sua casetta con una famiglia di dimensioni bibliche. La sua unica preoccupazione quotidiana è che gli rubino il suo tesoro, il milione di lire che ha avuto dall'assicurazione come indennizzo per la perdita di un occhio, almeno fino a quando conosce Iside, una prostituta della quale si invaghisce e per la quale comincerà ad allentare i cordoni della borsa. Giacinto porta Iside a casa, ma moglie e figli, timorosi che sperperi tutti i suoi averi, congiurano per toglierlo di mezzo. Cercano così di avvelenarlo, ma Giacinto si salva e per vendetta vende la sua baracca ad un'altra famiglia alquanto numerosa. Alla fine finiranno tutti sotto lo stesso tetto, ed il giorno dopo si ricomincia con gli stessi riti di sempre, come in “Aspettando Godot”.
E volando da Roma a Milano, mi è tornata in mente la canzone di Roberto Vecchioni  Signor Giudice (Un signore così così) , sempre dedicata a tutti quelli che fanno più fatica nel mestiere di vivere e che, appunto, sono destinati a campare “così così”, sempre ai margini della legalità.
La periferia romana non è sicuramente la stessa di 40 anni fa: molte cose sono cambiate e nemmeno i “Brutti, sporchi e cattivi”, almeno nel senso letterale del termine, sono più gli stessi.
Un po' per la rivoluzione tecnologica che obbliga tutti ad avere telefonino, computer, ecc., un po' perché siamo diventati un paese di immigrazione, fatto sta che oggi è difficile ritrovare nella nostra realtà i personaggi di Scola (per quanto nel film c'era la nonna, la madre di Giacinto, sempre dedita a seguire un corso di inglese in TV); regaliamo allora, per essere, come sempre, “politically correct”, le ultime righe del post odierno ad altri brutti, sporchi e cattivi che, anche se vanno dall'estetista e vestono griffato, sono probabilmente peggiori di quelli del film (che almeno avevano, nel degrado materiale in cui vivevano, un alibi).

martedì 4 giugno 2013

L'esprit des mots

Mi è sembrato di aver lasciato a metà un tema importante nel post precedente, così ho deciso di dargli un seguito, soffermandomi, questa volta, sull'importanza delle parole.
La volta scorsa, infatti, avevo coniato, sulla scia di "Monkey see,  monkey do",  un altro motto: “Parrot listen, parrot say” (“Il pappagallo dice quello che ascolta”) .
Certamente a nessuno sfugge il ruolo che hanno gli slogan nella pubblicità e nella comunicazione politica: i grandi esperti di comunicazione sono infatti sempre alla ricerca della battuta giusta, dell'espressione “cool”, magari condita da qualche termine francese oppure “americano”.
Ricordate il dialogo tra Nanni Moretti, nei panni di uno smemorato funzionario comunista, e la giornalista in “Palombella rossa”? Diceva Moretti:

..Chi parla male pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste.. Le parole sono importanti. Trend negativo...Io non parlo così, io non penso così...

Ed è vero: le parole che diciamo e che ascoltiamo sono importanti ed influenzano i nostri comportamenti.
Mi è tornato in mente uno stralcio di un'intervista a Gerard Depardieu che lessi molti anni fa e, dato che fortunatamente conservo ancora il libro che la raccoglieva,  eccovelo:

G.D.: ….Et puis, il y a le mot de Jouvet: “La diction entraîne le sentiment...” C'est vrai: on dit des phrases d'amour et on devient amoureux, on s'agenouille et on devient croyant...

G.D.: ….E poi, c'è la massima di Jouvet: “La dizione allena il sentimento..” E' vero: si dicono delle frasi d'amore e si diviene innamorati, ci si inginocchia e si diviene credenti.
[intervista a Gerard Depardieu, Le Nouvel Observateur 27-01-1984]

Scegliamo quindi bene le parole che diciamo e quelle che vogliamo ascoltare. Cestiniamo quelle che cercano di far leva sui nostri istinti meno nobili, perchè siamo quello che facciamo ma siamo anche quello che diciamo e che ci piace ascoltare.

domenica 2 giugno 2013

Monkey see, monkey do

Un giorno un rivenditore di cappelli, stanco di tanto girovagare, decise di schiacciare un pisolino sotto un albero. Quando si risvegliò, scoprì che delle scimmie avevano rubato tutti i suoi cappelli e li stavano indossando.
Si arrabbiò moltissimo, cominciò a urlare e a pestare i piedi, ma l'unico risultato che ottenne fu che anche le scimmie si misero ad urlare e a pestare i piedi.
Allora ebbe un'idea geniale: siccome le scimmie imitano tutto quello che vedono, si tolse il cappello che aveva in testa e lo gettò a terra. Anche le scimmie, allora, gettarono i cappelli a terra ed il rivenditore, così, li recuperò.
Molti anni dopo, il nipote del rivenditore di cappelli si appisolò sotto lo stesso albero. Come allora, le scimmie rubarono tutti i cappelli e li indossarono. Quando si svegliò, cominciò a strepitare ma poi si ricordò di quello che gli aveva raccontato il nonno e quindi si tolse il cappello dalla testa e lo gettò a terra . Stavolta però, le scimmie non lo imitarono ma dopo aver raccolto il suo cappello, iniziarono a prenderlo in giro, dicendogli: “Anche noi abbiamo i nonni!”.

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere questa favola africana. Poiché ve ne sono differenti versioni ( tra queste, "Caps for sale" di Esphyr Slobodkina, e "The Hatseller and the Monkeys" di Baba Wagué Diakité), ve l'ho raccontata con parole mie, ma la sostanza, comunque, è intatta.
Non voglio certo sminuire l'importanza che ha l'imitazione nel processo di apprendimento, tuttavia l'imitazione può essere il punto di partenza ma non il punto d'arrivo del processo conoscitivo.
Gli esperti di pubblicità e quelli della comunicazione politica conoscono molto bene questa favola, e così, sebbene attraverso strumenti raffinati, la strategia “Monkey see, monkey do” (la scimmia fa quello che vede) funziona quasi sempre.
E visto che ci siamo, potremmo aggiungere “Parrot listen, parrot say” (il pappagallo dice quello che ascolta [senza curarsi della veridicità del messaggio]..), e per fortuna che gli “animali” non sanno leggere, altrimenti ce ne sarebbe qualcuno che, di conseguenza, penserebbe quello che legge.
Il tono, come quasi sempre in questo blog, è scherzoso, ma il tema è serio e dovrebbe farci riflettere: la comunicazione, sia quando è diretta a venderci un prodotto che quando  cerca di orientare le nostre opinioni, si basa spesso su principi molto semplici e sembra trattarci come se fossimo sempre al primo stadio del processo di apprendimento... Beh, come le scimmie, ogni tanto ricordiamoci che anche noi abbiamo i nonni!