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domenica 29 novembre 2015

Il cammino dell'architetto

Riprendiamo il nostro viaggio tra i mestieri e le professioni e, dopo aver parlato di medici e avvocati, parliamo oggi degli architetti e lo facciamo attraverso uno stralcio dell'opera di Vitruvio, che all'architettura dedicò un vero e proprio trattato.
E, allora,  da "De Architectura" (Marco Vitruvio Pollione, 15 a.C), vediamo quale doveva essere, per i Romani, la formazione dell'architetto..

Cum ergo tanta haec disciplina sit, condecorata et abundans eruditionibus variis ac pluribus, non puto posse se iuste repente profiteri architectos, nisi qui ab aetate puerili his gradibus disciplinarum scandendo scientia plerarumque litterarum et artium nutriti pervenerint ad summum templum architecturae. At fortasse mirum videbitur imperitis, hominis posse naturam tantum numerum doctrinarum perdiscere et memoria continere. Cum autem animadverterint omnes disciplinas inter se coniunctionem rerum et communicationem habere, fieri posse faciliter credent; encyclios enim disciplina uti corpus unum ex his membris est composita. Itaque qui a teneris aetatibus eruditionibus variis instruuntur, omnibus litteris agnoscunt easdem notas communicationemque omnium disciplinarum, et ea re facilius omnia cognoscunt. Ideoque de veteribus architectis Pytheos, qui Prieni aedem Minervae nobiliter est architectatus, ait in suis commentariis architectum omnibus artibus et doctrinis plus oportere posse facere, quam qui singulas res suis industriis et exercitationibus ad summam claritatem perduxerunt. Id autem re non expeditur. Non enim debet nec potest esse architectus grammaticus, uti fuerat Aristarchus, sed non agrammatus, nec musicus ut Aristoxenus, sed non amusos, nec pictor ut Apelles, sed graphidos non imperitus, nec plastes quemadmodum Myron seu Polyclitus, sed rationis plasticae non ignarus, nec denuo medicus ut Hippocrates, sed non aniatrologetus, nec in ceteris doctrinis singulariter excellens, sed in is non imperitus.


Giacché questa disciplina è così ampia, abbellita e abbondante di differenti e molteplici materie, non ritengo che possano giustamente proclamarsi d'improvviso architetti se non coloro che fin dalla fanciullezza, salendo per questi gradi delle discipline, nutriti della conoscenza della maggior parte delle arti e delle lettere, siano giunti al supremo tempio dell’architettura. Ma forse sembrerà mirabile agli inesperti che la natura dell'uomo possa apprendere e ricordare un così ampio numero di dottrine. Quando si saranno resi conto però che tutte le discipline hanno delle cose in comune ed un collegamento, crederanno che ciò si possa facilmente verificare; infatti una disciplina completa è composita, come il corpo è composto di membra. E così coloro che fin dalla tenera età vengono istruiti in differenti materie, riconoscono in tutte le lettere le medesime caratteristiche e la comunicazione di tutte le discipline, e perciò conoscono tutto più facilmente. Ed è per questo che tra gli antichi architetti Pythius, che edificò eccellentemente il tempio di Minerva a Priene, dice nei suoi commentari che è opportuno che l’architetto, in tutte le arti e le discipline, possa fare di più di coloro che portarono al sommo splendore le cose singolarmente attraverso il loro industriarsi e i loro esercizi. Ma ciò in realtà non è conveniente. Infatti l’architetto non deve né può essere un grammatico, come fu Aristarco, ma nemmeno un illetterato, non deve essere un musico, come Aristosseno, ma neanche un ignorante della musica, non deve essere un pittore, come Apelle, ma nemmeno inesperto di disegno, non deve essere uno scultore, allo stesso modo di Mirone o Policleto, ma nemmeno ignaro delle regole della scultura, non deve essere, tanto meno, un medico come Ippocrate, ma nemmeno privo di nozioni di medicina, non deve eccellere in modo particolare nelle altre discipline, ma nemmeno deve ignorarle.


E, a mio avviso, probabilmente è proprio così, anche in questo mondo dell'ultra-specializzazione: che si architettino edifici, leggi, software, ecc. ecc., non si possono ignorare le lettere nè le altre discipline.

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domenica 15 novembre 2015

Mοῖρα - il pellegrinaggio di Don Alvaro

Facciamo un break e rispolveriamo uno dei classici del Romanticismo spagnolo, “Don Alvaro o la fuerza del sino” (“Don Alvaro o la forza del destino”) di Ángel Saavedra, il “Duque de Rivas”, che ci consente di allargare il discorso iniziato a proposito di indovini, vaticini e matematica.
Un po' di romanticismo, in fin dei conti, oggigiorno ci vuole e gli ingredienti necessari, nell'opera del Duque de Rivas, ci sono tutti: l'eroe coraggioso e tormentato, la “donna angelo”, l'eterna lotta tra l'amore e le convenzioni sociali, l'onore e il sentimento religioso.

¡Ángel consolador del alma mía!
¿Van ya los santos cielos
a dar corona eterna a mis desvelos?
Me ahoga la alegría...
¿Estamos abrazados
para no vernos nunca separados?
Antes, antes la muerte.
Que de ti separarme y de perderte.

Angelo consolatore della mia anima!
Vanno già i santi cieli a dar eterna corona ai miei sacrifici?
Mi affoga l'allegria...
Stiamo abbracciati
per non vederci mai separati?
Prima, prima la morte.
Piuttosto che separarmi da te e perderti.

Scontato anche il finale, con Don Alvaro che si suicida (altrimenti che eroe romantico sarebbe?) dopo aver provocato la morte, in un modo o nell'altro, di tutti quelli che la sua passione gli ha messo davanti.
E sebbene i suoi nemici cadano come mosche di fronte alla sua spada, nulla può contro il destino, i cui progetti non prevedono che i sogni dell'innamorato vengano coronati.

Baste.
¡Muerte y exterminio! ¡Muerte
para los dos! Yo matarme
sabré, en teniendo el consuelo
de beber tu inicua sangre.

E' troppo.
Morte e sterminio! Morte
per entrambi! Io togliermi la vita
saprò, avendo la consolazione
di bere il tuo sangue iniquo.

Già, Romanticismo a parte, rimane il dilemma se sia meglio essere fatalisti o sfidare il proprio fato, come Edipo. Beh, quelli di voi che appartengono al club dei “dreamers” sicuramente non avranno dubbi: se c'è una buona ragione per ribellarsi all'ineluttabilità del destino, questa è l'amore.

mercoledì 4 novembre 2015

Romanzo "Cafone"

Spostiamoci dalla valle del Belbo alle montagne abruzzesi, più precisamente in prossimità di Avezzano...Esatto, stiamo per parlare di “Fontamara” (Ignazio Silone, 1933). Confesso che non so spiegare il motivo di questa scelta, io “scrivo a braccio” , senza doppie finalità, ed il collegamento tra il romanzo di Pavese e quello di Ignazio Silone mi è venuto naturale, quasi automatico.
Fatto sta che quando ci si trova di fronte ad un'opera come “Fontamara”, nella quale quasi ogni frase è affilata come una sentenza, è difficile decidere da dove iniziare a fare le nostre riflessioni.
E allora, seguiamo il consiglio del re in “Alice nel paese delle meraviglie”, ossia cominciamo dall'inizio e andiamo avanti fino a quando non arriviamo alla fine: una volta lì, ci dobbiamo, gioco forza, fermare.
Iniziamo dunque dalla Prefazione, nella quale l'autore spiega la sua scelta di scrivere “Fontamara”:

Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e di dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.

Fontamara è quindi un racconto sulla povertà, sullo sfruttamento e sull'assuefazione ai soprusi, ingiustizie che, ancor oggi, con buona pace dei “negazionisti”, sono ben lungi dall'essere debellate .
Le vicende dei protagonisti si svolgono, poi, contemporaneamente con l'avvento del fascismo..Sapete come i fontamaresi iniziano ad accorgersi del cambiamento? Erano abituati a percepire, in prossimità delle elezioni, 5 lire per ogni familiare morto che veniva, poi, fatto regolarmente votare per Don Circostanza, paladino e rovina del paese...E così, per molto tempo, non sanno nemmeno che ci sono i fascisti al governo finché, un giorno, vengono a sapere che le elezioni “non servono più” e che, quindi, anche quest'aiuto “dall'aldilà” è venuto meno.
Ma quello che riesce a smuovere l'inamovibile gente di Fontamara è la deviazione del corso d'acqua che irrigava i loro campi, grazie alla petizione truffa che chiede al governo

che il ruscello venga deviato dalle terre insufficientemente coltivate dei fontamaresi verso le terre del capoluogo i cui proprietari possono dedicarvi maggiori capitali”.

Già, quella della lotta per l'acqua, con il capitale, da una parte, che vuole accaparrarsela e la gente, dall'altra, che resiste, è veramente una storia infinita e le donne di Fontamara non fanno eccezione ed insorgono bellicose. Ma non fanno in tempo ad accorgersi di un imbroglio che cadono subito in un altro perché, sfortunatamente, interviene in loro difesa Don Circostanza, che trova l'uovo di Colombo:

"Queste donne pretendono che la metà del ruscello non basta per irrigare le loro terre. Esse vogliono più della metà, almeno così credo di interpretare i loro desideri. Esiste per ciò un solo accomodamento possibile. Bisogna lasciare al podestà i tre quarti dell’acqua del ruscello e i tre quarti dell’acqua che resta saranno per i Fontamaresi. Così gli uni e gli altri avranno tre quarti, cioè, un po’ più della metà.”

E non c'è nulla da fare, nuovi imbrogli sono sempre in agguato...E quando gli imbrogli non bastano più, arriva la censura......

"Ma a Fontamara nessuno sa neppure che cosa sia la politica" osservò giustamente Marietta.
"Nel mio locale nessuno ha mai parlato di politica."
"Di che si parla, dunque, se il cav. Pelino tornò al capoluogo tutto infuriato?" chiese Innocenzo sorridendo.
"Si ragiona un po' di tutto" riprese a dire Marietta. "Si ragiona dei prezzi, delle paghe, delle tasse, delle leggi; oggi si ragionava della tessera, della guerra, dell'emigrazione."
"E di questo non si dovrebbe più parlare, secondo l'ordine del podestà" chiarì Innocenzo. "Non è ordine speciale per Fontamara, ma in tutta Italia è stato diramato quest'ordine. Nei locali pubblici non bisogna più parlare di tasse, di salari, di prezzi, di leggi.”
"Dunque, non bisogna più ragionare" concluse Berardo.

E viene così appeso il cartello “Per ordine del Potestà sono proibiti tutti i ragionamenti”.
E Berardo, l'eroe ribelle del romanzo, per una volta tanto, è d'accordo, perché “con i padroni non si ragiona”.
Tutti i guai dei cafoni vengono dai ragionamenti. Il cafone è un asino che ragiona. Perciò la nostra vita è cento volte peggiore di quella degli asini veri, che non ragionano (o fingono di non ragionare). ….Il cafone, invece, ragiona. Il cafone può essere persuaso. Può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a dare la vita per il suo padrone. Può essere persuaso ad andare in guerra...”.

Ma se la censura non è sufficiente a placare gli animi di quelli che vedono approssimarsi i tempi della fame, arriva la violenza vigliacca del Potere.
E vediamo come Silone descrive gli attori di queste prodezze....

Anche loro erano povera gente. Ma una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestieri, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al lavoro pesante; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autorità, essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di derubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari. Incontrandoli per strada e di giorno, essi erano umili e ossequiosi, di notte ed in gruppo, cattivi, malvagi, traditori. Sempre sono stati al servizio di chi comanda e sempre lo saranno.

Già, ma perché riescono ad imporsi? Perché, degli altri poveri, ciascuno pensa ai casi propri, ognuno è a capo di una famiglia e pensa alla propria famiglia, lasciando agli altri le faccende pubbliche.
E così si consuma il dramma di Fontamara in una soluzione di continuità sbalorditiva: il racconto si apre con il paese che viene lasciata al buio (in quanto viene tagliata la luce elettrica per morosità irrimediabile) e la gente si perde, progressivamente, in un'oscurità sempre maggiore.