Beh, negli ultimi anni la parola "Europa" è sempre più ricorrente nei giornali, nei talk show e nei social network, così non possiamo esimerci dal dedicarle dello spazio nemmeno noi, nel rispetto, però, del nostro principio guida che è quello di non fare politica.
Andiamoci a rileggere, quindi, il mito di Europa attraverso i versi eleganti di una nostra vecchia conoscenza, il poeta Ovidio.
Dalle Metamorfosi, II, vv. 846-875 :
non bene conveniunt nec in una sede morantur
maiestas et amor; sceptri gravitate relicta
ille pater rectorque deum, cui dextra trisulcis
ignibus armata est, qui nutu concutit orbem,
induitur faciem tauri mixtusque iuvencis
mugit et in teneris formosus obambulat herbis.
quippe color nivis est, quam nec vestigia duri
calcavere pedis nec solvit aquaticus auster.
colla toris exstant, armis palearia pendent,
cornua vara quidem, sed quae contendere possis
facta manu, puraque magis perlucida gemma.
nullae in fronte minae, nec formidabile lumen:
pacem vultus habet. miratur Agenore nata,
quod tam formosus, quod proelia nulla minetur;
sed quamvis mitem metuit contingere primo,
mox adit et flores ad candida porrigit ora.
gaudet amans et, dum veniat sperata voluptas,
oscula dat manibus; vix iam, vix cetera differt;
et nunc adludit viridique exsultat in herba,
nunc latus in fulvis niveum deponit harenis;
paulatimque metu dempto modo pectora praebet
virginea plaudenda manu, modo cornua sertis
inpedienda novis; ausa est quoque regia virgo
nescia, quem premeret, tergo considere tauri,
cum deus a terra siccoque a litore sensim
falsa pedum primis vestigia ponit in undis;
inde abit ulterius mediique per aequora ponti
fert praedam: pavet haec litusque ablata relictum
respicit et dextra cornum tenet, altera dorso
inposita est; tremulae sinuantur flamine vestes.
Non si adattano bene e non dimorano in un solo luogo
maestà e amore; abbandonata la gravità dello scettro
il padre e signore degli dei, che ha la destra
armata di fulmini a tre punte, che con un cenno del capo scuote la Terra,
prende le sembianze di un toro e in mezzo alle giovenche
muggisce e cammina, bello, sulla tenera erba.
Infatti è del color della neve, che non è stata calcata
dalla pianta di un piede duro né sciolta dall'Austro piovoso.
I muscoli del collo del toro risaltano, dalle spalle pende la giogaia,
le corna sono un ramoscello biforcuto ma [sono così belle che] possono sembrare
fatte a mano e sono più lucide di una gemma pura.
Nessuna minaccia è sulla fronte, né ha uno sguardo terribile,
il muso riflette pace. La figlia di Agenore lo guarda,
è così bello e non minaccia combattimenti;
ma, per quanto mite, ha paura dapprima a toccarlo,
poi si avvicina e porge dei fiori alla candida bocca.
Si rallegra l'amante e, nell'attesa della voluttà sperata,
le bacia le mani; con sforzo infatti, con sforzo rimanda a dopo le altre cose
e ora gioca e saltella sull'erba verdeggiante.
Ora depone il bianco fianco sulla sabbia biondastra;
e rimosso un po' alla volta il timore le offre il petto
da accarezzare con la mano virginea, e le corna
da ornare con nuove ghirlande; la vergine reale ha l'ardire,
ignara di chi fosse, di montargli sopra, di sedere sulla groppa del toro,
ed il dio così si allontana poco a poco dalla terra e dal lido
mettendo sulla riva le false impronte dei suoi piedi.
Poi va oltre e porta la preda in mezzo al mare: questa ha paura e guarda,
mentre viene portata via, la spiaggia lontana e la mano destra tiene un corno
e l'altra è posta sul dorso; le tremule vesti si gonfiano al vento.