Ricordo che un anno,
quando ero studente, feci un corso di francese in una scuola di
lingue in via Elio Vittorini. Mi trovai bene, l'ambiente era internazionale e simpatico e sia i docenti che lo staff erano molto amichevoli (ma del resto è difficile che le persone la cui
vocazione è quella di insegnare a parlare siano antipatiche e
scorbutiche, come direbbe un mio amico “sarebbe una contraddizione
pedagogica troppo grande”) .
Rendiamo omaggio, allora,
a questo scrittore parlando per l'appunto del libro che regala il
titolo al post odierno, “Uomini e no”.
“Uomini e no” è un
romanzo ermetico: sullo sfondo vi sono le azioni di guerriglia
partigiana e le rappresaglie tedesche, ma il racconto è incentrato
sulle riflessioni esistenziali dell'autore.
L'obiettivo, a mio
avviso, non è quello di celebrare la lotta partigiana ma di
esplorare la relazione tra il ricorso alla violenza e l'aspirazione
alla serenità, tra umanità e disumanità, tenendo ben a mente che
queste componenti sono presenti in ognuno di noi e che il solo
antidoto al “fascismo” e al “nazismo” , quando non è
un'innata innocenza a guidare i nostri passi sul cammino della
giustizia, è l'amore per la verità.
L’uomo, si dice. E noi
pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi
ha freddo, a chi è ammalato, e a chi è perseguitato, a chi viene
ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui.
Anche a tutto quello che in lui è offeso, e che era, in lui,
per renderlo felice. Questo è l'uomo.
Ma l'offesa che cos'è?
E' fatta all'uomo e al mondo.
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