Il post di questo 25
Aprile lo voglio dedicare alle persone che in quegli anni vissero
l'amara esperienza dell'esilio, del confino, della clandestinità,
dell'internamento o, più in generale, della lontananza forzata da
casa.
Chi non ha avuto almeno
un familiare costretto a riparare all'estero per sfuggire alle
persecuzioni della dittatura, o rinchiuso in una prigione, o
internato in un campo di lavoro?
Se infatti nel ventennio
le prigioni si riempirono degli oppositori al regime, furono
moltissimi anche i prigionieri di guerra nonché i militari italiani
deportati in Germania e nei territori occupati all'indomani
dell'armistizio del 1943, dove erano costretti a lavorare in
condizioni terribili.
E moltissime furono anche
le famiglie italiane che accolsero e nascosero, rischiando molto e
dividendo il poco che c'era in quei giorni, altri che pure erano
lontani da casa, dagli sbandati dell'esercito alleato, ai militari
italiani in fuga, ai partigiani, ai perseguitati.
E poiché quello
dell'esilio è un dolore antico, andiamo a riscoprire gli scritti di
uno dei nostri ospiti preferiti, Marco Tullio Cicerone.
Anche Cicerone, che
difese e salvò molte persone dalle ingiustizie dei potenti, infatti,
conobbe la via dell'esilio a seguito della persecuzione del tribuno
della plebe Clodio Pulcro che prima lo fece condannare attraverso una
legge retroattiva e successivamente fece approvare altre leggi che
gli proibissero di avvicinarsi al confine dell'Italia e che gli
confiscassero le proprietà.
Attraverso le “Lettere
ai familiari” conosciamo, dunque, la sua parte più autentica.
Prendiamo qualche
stralcio da questa lettera, scritta da Brindisi alla famiglia il 30
Aprile del 58 a.C. .
Ego minus saepe do ad
vos litteras quam possum, propterea quod cum omnia mihi tempora sunt
misera, tum vero, cum aut scribo ad vos aut vestras lego, conficior
lacrimis sic ut ferre non possim
Vi scrivo il meno
possibile, poiché tutti i miei momenti sono estremamente infelici ma
quando vi scrivo o leggo le vostre lettere mi sciolgo in lacrime in
modo tale che non riesco a sopportalo.
Già, quando il dolore è
costante cerchiamo di contenerlo chiudendoci in noi stessi, ma quando
siamo costretti ad aprirci con le persone che amiamo, ecco che
dilaga.
Nos
Brundisi apud M. Laenium Flaccum dies xiii fuimus, virum optimum, qui
periculum fortunarum et capitis sui prae mea salute neglexit neque
legis improbissimae poena deductus est quo minus hospiti et amicitiae
ius officiumque praestaret. Huic utinam aliquando gratiam referre
possimus!
Sono
stato a Brindisi per 13 giorni presso M. Lenio Flacco, uomo
eccellente, che ha trascurato per la mia salvezza il pericolo di
perdere i beni e la sua testa e che nemmeno dalla pena prevista da
una legge ingiustissima si è lasciato dissuadere dall'adempiere ai
doveri dell'ospitalità e dell'amicizia. Magari possa io un giorno
restituirgli il favore!
Ed
è vero, quando attraversiamo un brutto periodo, c'è sempre qualcuno
che con la sua grandezza d'animo rende il nostro cammino meno buio e
che con il suo esempio ci fa venir voglia di uscire da quella
mediocrità che la prudenza suggerirebbe.
Opinor,
sic agam : si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves ;
sin, ut ego metuo, transactum est, quoquo modo potes ad me fac
venias. Unum hoc scito : si te habebo, non mihi videbor plane
perisse.
Penso
di fare così: se vi è speranza di un mio ritorno, rafforzala e
lavora per essa; se, come temo, è tutto finito, cerca di venire da
me in qualsiasi modo possibile.Solo questo sappi: se ti avrò vicino,
non mi sembrerà di esser del tutto perduto.
Essere
soli fa paura.
Viximus,
floruimus ; non vitium nostrum sed virtus nostra nos adflixit ;
peccatum est nullum, nisi quod non una animam cum ornamentis
amisimus. Sed si hoc fuit liberis nostris gratius nos vivere, cetera,
quamquam ferenda non sunt, feramus.
Siamo
vissuti, abbiamo avuto dei bei momenti; a nuocerci non fu il vizio ma
la nostra virtù; io non ho commesso alcun peccato, se non quello di
non aver abbandonato la vita, insieme ai suoi ornamenti. Ma se che io
viva è più gradito ai nostri figli sopporterò tutto il resto, per
quanto sia insopportabile.
I
Romani avevano, infatti, il costume di porre fine alla loro vita quando
questa fosse divenuta insopportabile, ad esempio per aver perduto
l'onore o per essere alla mercé del proprio nemico: Cicerone
considera una colpa non essersi tolto la vita, ma sceglie di vivere
per i propri figli. In queste situazioni, inoltre, quello che ci
amareggia di più è che il nostro agire ha causato dei mali alle
persone che amiamo e quindi Cicerone cerca conforto nel fatto che la
sua famiglia soffre a seguito di una sua condotta virtuosa e non a
causa di qualcosa di vergognoso da lui commesso: lo scrive alla
moglie ma, a mio avviso, lo sta ripetendo a sé stesso.
Una
lettera simile, nei contenuti, a questa, che è di oltre 2000 anni
fa, sarà stata scritta molte volte negli anni della dittatura e
della guerra e continuerà ad essere scritta ovunque si è costretti
a fuggire o si viene strappati alla propria famiglia.
Se la
“Resistenza” è rivolta morale, la “Liberazione” è poter
tornare a casa.
Buon 25 Aprile!
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